La formula della performance: comunicazione, pensiero ed emozioni nei luoghi di lavoro

La forza di una formula

Timothy Gallwey, coach e scrittore, ha lasciato una traccia profonda con il suo metodo The Inner Game, reso celebre dal libro The Inner Game of Tennis (1974) e ampliato in The Inner Game of Work (2000).

La sua intuizione si condensa in un’equazione tanto essenziale quanto potente:
Performance = Potenziale – Interferenze

Un principio che sposta l’attenzione: la performance non dipende soltanto dal talento o dalle risorse disponibili, ma soprattutto da ciò che ostacola la loro piena espressione.


Performance, potenziale e interferenze: definizioni operative

Per comprendere il senso della formula, occorre chiarire i tre concetti chiave:

    • Performance: il risultato concreto di ciò che un individuo o un gruppo realizza. Non è solo output numerico, ma qualità del lavoro, capacità di collaborare, sicurezza dei processi, efficacia delle relazioni.
    • Potenziale: l’insieme delle risorse cognitive, emotive, relazionali e tecniche che una persona o un’organizzazione possiede. È ciò che può essere espresso nelle condizioni giuste: competenze, creatività, esperienza, motivazione, fiducia reciproca.
    • Interferenze: gli ostacoli che riducono o distorcono l’espressione del potenziale. Non eliminano ciò che esiste, ma lo limitano, lo deviano o lo soffocano.
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    Interferenze interne ed esterne

    Gallwey distingueva le interferenze in due grandi categorie, entrambe decisive nei contesti lavorativi.

     

    Interferenze interne:

    • ansia da prestazione,
    • paura di sbagliare,
    • convinzioni limitanti (“non serve dirlo, non cambierà nulla”),
    • insicurezza nell’esprimersi,
    • scarsa fiducia in sé o negli altri.

    Sono dinamiche psicologiche che nascono dentro le persone e che riducono la libertà di esprimere il proprio potenziale.

    Interferenze esterne:

    • procedure incoerenti,
    • informazioni contraddittorie,
    • mancanza di coordinamento,
    • leadership autoritaria o assente,
    • un clima organizzativo che genera sfiducia.

    Sono condizioni create dall’ambiente che influenzano direttamente la possibilità di agire.

    In realtà, le due dimensioni si intrecciano continuamente: un contesto esterno ambiguo alimenta le insicurezze interne; al contrario, un ambiente chiaro e coerente può ridurre le paure e liberare energie.


    Dal pensiero al comportamento: il circuito che plasma la performance

    Ogni scambio comunicativo non si limita a un passaggio di informazioni. È un processo complesso che attraversa tre dimensioni: cognitiva, emotiva, comportamentale.

     

    Percezione e interpretazione cognitiva
    Ogni messaggio viene filtrato da schemi mentali, esperienze e aspettative. Un gesto del caporeparto – un sopracciglio inarcato, una parola detta in fretta – può essere interpretato come segnale di urgenza, di disapprovazione o di semplice distrazione. La percezione attiva l’interpretazione, e l’interpretazione costruisce il significato.

    Attivazione emotiva
    A ogni interpretazione corrisponde un’emozione. La chiarezza genera sicurezza, l’ambiguità produce ansia, la coerenza alimenta fiducia. Le emozioni sono carburante o freno: possono spingere alla collaborazione oppure portare alla chiusura e alla difesa.

    Traduzione comportamentale
    Le emozioni si traducono in azioni. Chi si sente riconosciuto contribuisce con più apertura; chi percepisce svalutazione si ritrae o si oppone. Non è solo una scelta razionale: è una dinamica psicologica che influenza gesti concreti – segnalare un problema, proporre un’idea, restare in silenzio.

    Clima organizzativo
    La somma dei comportamenti individuali diventa clima collettivo. Se prevalgono fiducia e ascolto, il clima sarà aperto, propositivo, innovativo. Se prevalgono ansia e sfiducia, il clima sarà rigido e difensivo.

    Questo circuito – percezione, interpretazione, emozione, comportamento, clima – è il cuore della comunicazione organizzativa. È anche il punto in cui nascono le interferenze che sottraggono valore al potenziale.


    Interferenze comunicative nei contesti reali

    Le interferenze non vivono nei manuali, ma nelle scene quotidiane:

    Uno scambio di consegne tra turni: se un’informazione viene passata in fretta o con tono svalutante, chi subentra può sentirsi poco considerato, reagire con chiusura e ridurre l’attenzione.

    Un gesto incoerente: il responsabile parla di “collaborazione”, ma evita sistematicamente il confronto. Le sue parole vengono svuotate dal comportamento.

    Un clima emotivo negativo: quando prevale il timore di sbagliare, le persone non propongono soluzioni ma si limitano a eseguire, impoverendo l’intelligenza collettiva.

    Queste situazioni mostrano come la comunicazione, intesa in senso pieno, sia il vero campo in cui si gioca la partita tra potenziale e interferenze.


    La filosofia come lente di profondità

    Gallwey ci ha consegnato una formula pragmatica, ma la filosofia ci offre chiavi di lettura.

     

    Wittgenstein: i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo. In azienda, un linguaggio povero o ambiguo restringe le possibilità d’azione di un gruppo.

    Heidegger: il Gerede, il chiacchiericcio che copre invece di chiarire.
    È la comunicazione ridondante che consuma energie senza generare senso.

    Da queste prospettive emerge una verità: il linguaggio non descrive solo la realtà, ma la costruisce. Se è chiaro e coerente, libera potenziale. Se è opaco o contraddittorio, lo soffoca.


    Non accumulare, ma ridurre

    Molte organizzazioni reagiscono alle difficoltà con l’accumulo: più regole, più procedure, più comunicazioni. Ma la formula di Gallwey ci ricorda che la vera leva non è aggiungere, ma ridurre.

    • Ridurre le ambiguità cognitive.
    • Ridurre i climi emotivi tossici.
    • Ridurre le incoerenze tra parole e azioni.

    Ridurre interferenze significa restituire spazio al potenziale che già esiste, trasformando energie latenti in performance concreta.


    Una bussola per la leadership

    Gallwey, Wittgenstein e Heidegger, da prospettive diverse, convergono sullo stesso punto: la performance non è questione di potenziale mancante, ma di interferenze da sciogliere.

    Per chi guida persone, questo implica una responsabilità chiara: creare le condizioni perché la catena cognitiva, emotiva e comportamentale funzioni senza distorsioni.

    In altre parole: comunicare con chiarezza, ascoltare con autenticità, agire con coerenza.

    Perché la performance, nei luoghi di lavoro, non è mai un mero indicatore numerico: è il riflesso della qualità delle relazioni che l’hanno resa possibile.


    “La comunicazione non è scambio di parole: è il circuito di pensieri, emozioni e comportamenti che costruiscono il clima e, con esso, la performance.”Maria Luisa Pavino

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